L'angelo guida e regala come san Raffaele, difende ed evita come san Michele, e previene come san Gabriele.
L'angelo abbaglia, ma vola al di sopra dell'uomo, gli sta sopra, dirama la sua grazia, e l'uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza. L'angelo della via di Damasco e l'altro che entrò per le fessure di un balconcino di Assisi, o quello che segue i passi di Enrico Susson, ordina e non v'è modo di opporsi alla sua luce, perché agita le ali di acciaio nell'ambiente del predestinato.
La musa dètta e, in alcune occasioni soffia. Può abbastanza poco, perché è già lontana e tanto stanca (l'ho vista due volte) che dovetti metterle mezzo cuore di marmo. I poeti di musa odono voci e non sanno dove, ma sono della musa che li nutre e, talvolta, se li beve. Come per Apollinaire, gran poeta distrutto dall'orribile musa con cui lo dipinse il divino angelico Rousseau.
La musa sveglia l'intelligenza, reca paesaggio di colonne e falso sapere di lauro, e sovente l'intelligenza è nemica della poesia, poiché imita troppo, poiché eleva il poeta su un trono di spighe acute e gli fa dimentciare che all'improvviso se lo possono mangiare le formiche o gli può cadere sul capo una grossa aragosta di arsenico, contro la quale nulla possono le muse che stanno nei monocoli o nel rosa di tiepida lacca del salotto.
Angelo e musa vengono da fuori; l'angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane di oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue.
E respingere l'angelo e tirare un calcio alla musa, e perdere la paura della fragranza di violette che esala la poesia del Settecento e del gran telescopio nei cui cristalli s'addormenta la musa malata di limiti.
[...]
Quando la musa vede giungere la morte chiude la porta o innalza un plinto o si porta in giro un'urna e scrive un epitaffio con mano di cera, ma subito torna a stracciare il suo lauro con un silenzio che vacilla tra due brezze. Sotto l'arco troncato dell'ode, ella unisce con senso funebre i medesimi fiori che dipinsero gli italiani del Quattrocento e chiama l'impavido gallo di Lucrezio affinché spaventi ombre impreviste.
Quando vede giungere la morte, l'angelo vola in cerchi lenti e tesse con lacrime di ghiaccio e narciso l'elegia che abbiamo visto tremare nelle mani di Keats, e in quelle di Villasandino, e in quelle di Herrera, e in quelle di Bécquer e in quelle di Juan Ramón Jiménez. Ma che terrore ha l'angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato!
Invece, il duende non giunge se non coglie la possibilità di morte, se non sa che deve far la ronda alla sua casa, se non è certo che deve cullare quei rami che tutti portiamo e che non hanno, che non avranno consolazione.
Con un'idea, con un suono o un gesto, il duende si compiace dei bordi del pozzo in aperta lotta con il creatore. Angelo e musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita che mai rimargina risiede l'insolito, l'inventato dell'opera umana.
Federico García Lorca
da Il duende. Teoria e giuoco, Semar, Roma 1996, pp. 3-39
cit. in Il dio dell'ebbrezza, a cura di E. Zolla, Einaudi, Torino 1998, pp. 123-129
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