Cercando nel labirinto degli specchi

Sunday, 13 January 2013

The kids are all right


Eccomi qui, nel letto.
Fuori la città si dibatte e si dimena, nel buio, nello smog. Nella puzza dei vicoli. Là fuori, c'è la vita vera.
Io resto sotto le coperte. Ma non dormo.
Immagino la madre che scende di nascosto le scale per sgraffignare un biscotto, magari con un po' di liquore; lo spacciatore che aspetta di tornare a casa, all'alba, con le tasche piene di grana; gli studenti in biblioteca, sprecando le ore a studiare...
E io sono qui, da sola, con le coperte fin sul naso.
Ho le dita intrecciate tra il petto e la pancia, come un morto che si pavoneggia nella bara.
Là fuori l'umanità si affanna, soffre e si agita invano. Passeggia senza ombrello dove più piove merda.
Per questo dovrei essere felice, di non dare a luce un nuovo umano.
Non ho mai voluto accrescere il numero degli affiliati a questa tenace setta di autolesionisti.
Dovrei essere felice, di avere il ventre libero.
Sento qualcosa in me contorcersi - dev'essere la fame.
Là fuori, come ogni anno, qualcuno spara e scappa. Qualcun altro si accascia a terra, e si accorge di morire.
Almeno non avrò figli, potrebbero soffrire.
Sotto le mie mani, sento il vuoto che si è scavato. Ormai mi abita il nulla.
Non sono incinta.
Ma questa notte, è strano, questo non mi rende serena.

Sarebbe stato un mostro, come il suo tremendo padre.
Non l'ha detto nessuno, ma qualcuno in me l'ha pensato. Penso i potenziali pensieri che gli altri potrebbero pensare. Che spreco di energia, e quanto rimuginare.
Ma è quello che avrebbe voluto dire Harvey, quando mi ha salvato.
Mi ha vista piangere, e per qualcun altro. Da fuori l'avrei definito un errore madornale, ma adesso... che mi importa?
Già, che cosa mi importa?
Ormai non riesco più a volere.

Alfred bussa, gli faccio cenno di entrare.
Signorina, sta bene? Perdoni l'invadenza, ma ho visto che non ha ancora spento la luce, ed è notte inoltrata...
Non lasciano chiusa la porta - bè, lo posso capire. Ho abbastanza cicatrici per farli dubitare.
Ma non voglio uccidermi. Perché lo dovrei fare?
Alfred, sono stupida?
Lo chiedo tanto per parlare. Anche perché lo so, che non mi può criticare.
Distesa in questo letto, non sentirò mai la verità. Potrebbe farmi male.
Lui alza il sopracciglio, ma non mi si avvicina. Gli faccio segno di entrare, ma lui mantiene la distanza.
Troppo cavalleresco, troppo.
Signorina, la conosco da troppo poco tempo, per poterla giudicare... e ad ogni modo, non lo oserei mai fare.
Molto diplomatico, osservo, con un sorriso.
Lui china un attimo il capo, per ringraziare.
Però te lo assicuro, lo sono. Sarebbero state oggi quattro settimane... per la medicina non era che un...
Era ciò che lei sentiva, mi interrompe Alfred. La smetta di torturarsi. Sta già soffrendo abbastanza, non ha bisogno anche di pensare che ciò che prova sia un'illusione.
Non scoppio a piangere, ma sento finalmente calore. Non mi aspettavo quelle parole. Mi fanno bene.
Mi asciugo gli occhi e faccio per alzarmi, ma Alfred mi si precipita vicino.
Ehi, finalmente, gli dico, ridacchiando. Il suo sguardo preoccupato si addolcisce un po', ora rilassato. Fai troppo il prezioso, amico, aggiungo, e lui scuote la testa, schermendosi.
Grazie.
Lui non mi prende la mano, né mi dà una pacca o un abbraccio - non lo farebbe mai, non si addice al suo ruolo!, mi guarda sorridendo, come un padre la cui apprensione trova finalmente un po' di sollievo.
Non mi deve ringraziare. Deve solo riposare, e per un attimo almeno concedersi una tregua. Non c'è nulla che si possa dire, per poterla rasserenare... posso solo dire che credo che lei abbia sopportato una delle prove più amare che una donna possa vivere, e che il solo vederla sorridere è già un vero miracolo. Non deve chiedere altro, a se stessa, signorina.
Mi slancio in avanti e lo abbraccio, e che diavolo... è l'unico gesto che riesca a compiere, ora.
Perché ha ragione, non c'è nulla che possa essere detto.
Io stessa non so cosa pensare, o provare, o dirmi in merito.
Ma lui, che neanche mi conosce, che non mi deve niente, e che si è ritrovato a dovermi accudire senza un aumento, neanche una clausola a proposito nel contratto, lui, che ho importunato per mia compiacenza alle quattro di notte, si è trovato nel discorso più duro in cui potessi invischiarlo, e mi ha affrontato - è stato gentile, dolce, e non ha avuto paura di sfidare le banalità per potermi consolare.
Io al suo posto sarei scappata singhiozzando, per non tornare mai più in questa stanza.
Lo abbraccio anche se lui rimane interdetto e non sa cosa fare, e impiastricciandogli la giacca di moccolo gli mormoro Grazie, di nuovo.

Non so chi e cosa sarebbe diventato, ma non sarebbe stato un mostro, come il padre.
Perché un bambino è innocente, è puro, è un angelo, e in nessun caso potrà mai essere un mostro.
E neanche il padre lo è - e il fatto che io lo continui a pensare, è parte dell'affollato club dei miei problemi.
Ma Alfred ha ragione, e pensare o meno a questo non lo farà tornare.
Per cui io non ci penso, non per questa notte, almeno - faccio un respiro profondo, ed espirando mi lascio andare.
Il cuscino è spesso e soffice, come sprofondare in una pallina di gelato appena fatta.
Mi giro su un fianco, e poi mi stendo sulla pancia - Alfred mi sistema le coperte, e poi di nuovo si allontana.
Potresti restare ancora un po', Alfred, per favore? gli chiedo a occhi chiusi, con la voce impastata.
Forse sarebbe il caso, non si addice al suo ruolo, ma Alfred non obietta, e si siede alla scrivania, a leggere un vecchio giornale.
Ci scambiamo la buonanotte, e alla fine mi riesco ad addormentare.

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