Quindi è vero... che l'amore non esiste? chiese lei, col viso storpiato dalla speranza.
Lui scosse la testa, sorridendo pietosamente, come se lei gli avesse chiesto per l'ennesima volta un'ovvietà.
La luna era quasi giunta al bordo della nuvola... stava per riapparire.
Mia cara... ma certo che l'amore... NON esiste! Come potrebbe essermi possibile, in un mondo... in cui l'amore esistesse... fare... tutto questo?!
La luna si liberò dal velo, lo squarciò all'improvviso, illuminando tutta la radura di bianco.
Berlin perse il respiro, rimase a fiato mozzo.
Davanti a loro, sotto di loro, intorno a loro, c'erano solo bambini. Morti. Sfregiati come J si era sfregiato una volta.
Alcuni di loro avevano ancora il cordone ombelicale, altri erano riversi in piccole pozze verdastre, di rigurgito. Erano nudi, eccetto qualcuno che aveva ancora il polso il cartellino dell'ospedale.
Berlin cadde in ginocchio, la pancia attraversata da una fitta che non riusciva a fermare. Come se il suo utero stesse per scoppiare.
No!
Tutta la radura era ricoperta di neonati e feti e ciuffi d'erba che spuntavano dalla neve in poltiglia.
Ovunque lei guardasse, si sentiva sempre più morire.
Rimase ammutolita dallo shock fino a quando il dolore non fu troppo, e la fece strillare.
Il suo grido non echeggiò in quella discarica di vita, perché le rimase, strozzato, a metà gola.
Non aveva bisogno di abbassare gli occhi per saperlo. Lo sentiva dal male, e lo sentiva dall'odore - il suo corpo stava perdendo sangue.
Afferrò con violenza il polso di J, che stava contemplando rapito quello spettacolo, e lo strattonò, accecata dal dolore che le stava bucando la pancia.
Ti prego... riuscì solo a rantolare. Dobbiamo...
Un altro grido le morì in bocca, soffocato dai denti che affondavano nel labbro per trattenere quel male.
J si chinò su di lei, per essere alla sua altezza, e le prese con dolcezza il viso tra le mani.
Per la prima volta Berlin riusciva a sentire il suo fetore di morte.
Sssh... le soffiò piano in faccia. Sssh... no... non dobbiamo... perché tu e questo bambino... siete troppo belli... troppo perfetti e puliti... per questo mondo cariato!
Parlò sorridendo, con fitte lacrime che gli sporcavano gli occhi. E intanto le teneva la mano nella sua.
Allora lei capì.
Per loro due non c'era speranza.
Si piegò su se stessa, stringendosi il ventre con le mani, cercando disperatamente di salvare quel bambino... di trattenerlo con lei, di salvarlo dal finire in quella atroce radura.
Sapeva che era inutile. Non sapeva spiegarsi come.
Urlò con tutta la forza che aveva, come una belva ferita che non può che essere finita dai cacciatori.
Urlò e pianse fino a sentirsi mancare, cercando di alzarsi, ricadendo ogni volta, sporcandosi le gambe di fango, neve e suo sangue.
Poi la luce dei fari li investì, qualcuno colpì J alle spalle. Lui cadde, lei fu afferrata e sollevata, piano.
Continuò a tenersi la pancia, per proteggerla, mentre sentiva che tutta la vita che aveva stava gocciolando fuori da lei, con quel sangue. Pianse fino a quando non vide Due facce, che la teneva in braccio come una bambina sperduta.
Fece per parlare. Ma noi... Tu, perché... riuscì a dire, poi smise di tentare, perché non aveva senso. Cosa lo aveva? Dentro di lei... moriva...
Si aggrappò alla giacca di Dent, singhiozzando. In qualsiasi momento fossero arrivati, sarebbe stato comunque... troppo tardi.
Lo so... ma una metà... è tua, no? le disse dolcemente lui. Poi la fece stendere sul sedile... di una qualche macchina, forse, Berlin ormai non aveva più voglia di capire. Erano sedili in pelle, però, questo le era chiaro.
Berlin sentì un mugolio di dolore di J, a qualche metro da loro. Ma non riuscì a guardare.
Restò con gli occhi che le bruciavano, rannicchiata su un fianco con le mani salde sopra l'ombelico, a tapparlo perché nulla potesse volarsene via, fino a quando non svenne, o si addormentò, senza provare più niente.
Quando si svegliò, avrebbe scommesso di essere nella solita clinica, nella solita stanza, nel solito letto cui ormai avevano dato il suo nome.
Ma poi sbatté meglio le palpebre, e vide che non era dove pensava.
Una bella camera in stile impero, con ampie vetrate e tende attraversate dalla calda luce del giorno, oltre a cui si intravedeva una terrazza, e più in là ancora il ricco verde di un giardino sterminato.
Era un posto così bello che si sentì quasi in dovere di essere felice.
Una sveglia alla vecchia maniera segnava le tre del pomeriggio.
Aveva dormito per oltre...
Tre giorni, disse Dent, entrando affiancato dal suo vecchio amico in borghese.
Lei si tirò su, facendo leva su un braccio, ma il suo amico le fece cenno di restare giù, per riposare.
Li guardò sorridendo - era un sorriso vuoto, da morfina, ma i due non si aspettavano di meglio, era chiaro.
Nessuno dei due le chiese come stava.
Era chiaro.
A un certo punto l'amico se ne andò, per chiamare un medico, o portarle qualcosa da mangiare...
Lei rimase sola con Dent, il cui viso ormai riportava solo qualche leggero cenno dell'incendio cui era scampato. Aveva ripreso su tutta la faccia la sua rude bellezza, molto maschia, da superuomo. Miracoli della medicina moderna. Buon per Rachel, pensò lei, e la cosa la fece scoppiare a ridere.
Dent la guardò sorpreso, vagamente sollevato, un po' a disagio.
Nessuno aveva idea di come trattare con una ragazza disturbata che aveva appena perso il figlio concepito nel braccio della morte con il Clown Sovrano del Crimine.
Ciao, sexy, lo salutò allora lei, inclinando la testa di lato per studiarlo meglio, ammiccante.
Tea? disse lui, stupefatto.
Lei annuì, sorridendo come se non avesse avuto più nulla da perdere.
Ops. In effetti era così.
Che c'è, non ti aspettavi di vedermi? chiese, mettendo su un broncio da finta offesa.
Lui la guardò ancora più perplesso.
E Berlin?
Curiosità prevedibile.
Lei non rispose. Si limitò a alzare gli occhi oltre le spalle di Dent, per ammirare i gigli bianchi che qualcuno doveva averle portato, resi quasi eterei dalla luce chiara che galleggiava nella stanza.
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