Sabato sera, e alle undici sono già a casa.
Berlin si stende scoraggiata sul divano, e non riesce a fare altro.
Perché ha un divano, poi? Quello che le basta per vivere, in una casa, è il letto, e il frigo, il bagno, e un computer. Non servono specchi, mobili decorativi, asili per ospiti. Non servirebbe neanche la cucina, anzi, sarebbe meglio non ci fosse - vista la scottatura che medita di prendersi da giorni sul fornello.
A volte si vergogna, di fare certi pensieri. Poi si vergogna di non essere capace di provare semplicemente ciò che le capita di provare, senza sentirsi in colpa. E a quel punto si sente una patetica vigliacca, e desidera punirsi. Quindi, ricomincia a vergognarsi di fare certi pensieri. Una ragazza in loop.
Tornata a piedi, di corsa, zizagando tra le macchine senza neppure accorgersene, con gli insulti degli automobilisti, le brusche frenate e il grido della Banshee e del clackson come colonna sonora che non era riuscita proprio a sentire, Berlin è finalmente nel suo covo, dopo quattro ore di fuga.
Respira.
Quattro ore in trance, sotto shock, e solo ora Berlin respira e riesce ad accorgersene.
Le fa male qualcosa, tra il torace e il basso ventre.
Da qualche parte le campane suonano, annunciano la messa per le anime perse di quel mondo.
Fuori è buio e incasinato, mentre lì, nel suo appartamento... Berlin si sente al sicuro.
Chissà perché i suoi l'hanno chiamata Berlin - ah! è questo il punto. Non sono stati loro, a darle quel nome. Fu la cotta che lei si prese per la voce di Lou Reed quando aveva dodici anni. O fu perché dopo la maturità avrebbe voluto fare un giro in Germania? No. Si chiama Berlin perché Berlino era stata divisa in due - due parti opposte, nemiche, rivali, perennemente nostalgiche l'una dell'altra, la frattura tra le quali non poteva essere risolta da loro stesse. Si chiamava Berlin perché Berlino era stata scissa in due, e poi si era ricomposta, e aveva il suo equilibrio.
Fuori la gente si sta sbronzando e ingannando, mentre lì, dove non c'è che lei, non possono esserci turbamenti dell'ordine che non siano imputabili che a lei. E questo cosa vorrebbe dire?
Vuol dire che se resta lì dentro per sempre, non potrà rimanere ferita da altri.
Berlin avvicina i polsi l'uno all'altro, davanti a lei, e guarda le loro vene verdastre, in impressionante rilievo sotto la pelle mortalmente pallida. Le sente quasi pulsare, solo a guardarle - come se la stessero incitando.
Si lascia cadere le braccia in grembo, e si rannicchia sull'inopportuno divano.
Non ha mai ospitato nessuno, nel suo appartamento.
A parte un'amica, una volta - poi l'amica era sparita.
Non accade niente.
Berlin rimane sul divano, come una crisalide vuota, mentre la notte corre veloce per Gotham.
Era stata in quella strada, poco prima del tramonto - la strada in cui era svenuta dopo che una bella psichiatra psicolabile le aveva sparato una soluzione finale dritta nel cuore, poco prima che la luce aranciata e calda del sole che se ne andava si spargesse sulla neve ammucchiata su quei marciapiedi dove ormai la giustizia più non passava.
Era stata in quella strada, a cercare qualcosa che aveva perso - una carta che le era stata regalata tanto tempo prima, e a cui le teneva tanto. E l'aveva ritrovata.
Poco distante dal bar dove la bionda dottoressa le aveva teso una curiosa imboscata, la carta la stava aspettando. Era appoggiata sul coperchio uno di quegli enormi barattoli metallici in cui nelle fredde notti d'inverno qualcuno accendeva il fuoco - doveva essere un cestino di latta, ipotesi che per Berlin avrebbe potuto essere tranquillamente prima di senso, ferrata com'era nella vita reale.
Sembrava intatta, almeno da lontano. Qualche anima buona smarritasi da quelle parti doveva averla trovata, sepolta a metà nella neve, magari sporca e spiegazzata, ma ancora integra... e l'aveva messa lì, sul cestino, e non nel cestino, in modo che il legittimo proprietario potesse trovarla.
Berlin si era sentita come al solito lacerata di commozione, per la stupefacente gentilezza degli sconosciuti - un sentimento che riusciva a provare solo quando i suddetti sconosciuti non erano presenti, perché altrimenti sarebbe stata troppo congelata dall'ansia sociale per sentire qualche calore o trasporto per loro.
Berlin si era sentita felice, e sollevata, e leggera, ed era corsa da lei, dalla carta, con l'entusiasmo con cui una persona normale sarebbe corsa a riabbracciare una vecchia amica.
Poi, aveva visto la carta, la sua carta, quella che era venuta a cercare, strappata in mille pezzettini, bruciacchiati ai lati (doveva aver soggiornato per qualche tempo in un posacenere) e sporchi di grigio, ammucchiati ai piedi della carta che aveva visto da lontano, e che ora le pareva troneggiare sul coperchio del cestino come sullo scranno della Corte dei Miracoli.
Quella carta, quella perfettamente intatta, rideva di lei, e dei suoi sogni stracciati.
Quella carta era la matta.
L'aveva capito anche Berlin che non distingueva il poker dal bridge.
La carta smembrata era la Regina di Fiori che lui le aveva dato quando si erano conosciuti.
E prima che Berlin potesse scoppiare, disgregarsi e sparire, alla finestra di uno degli ultimi piani del palazzo abbandonato sopra di lei era apparso un sorriso agghiacciante e familiare, e dietro di lui, con gli occhi - Berlin riusciva a vederlo anche da lì, da dieci metri più in basso - fosforescenti dalla gioia, e ben spalancati per sbatterglielo meglio in faccia, la maschera della donna che le aveva bucato il cuore.
E un cuore pieno d'elio allora era scoppiato, proprio come un palloncino.
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